Area Psico-Sociale

L’arte di educare i figli

“I mestieri più difficili in assoluto sono nell’ordine il genitore, l’insegnante e lo psicoterapeuta”. Il padre della psicoanalisi dice una verità, essere genitore è un arduo compito.

“I mestieri più difficili in assoluto sono nell’ordine il genitore, l’insegnante e lo psicologo” S. Freud.

Certamente il padre della psicoanalisi dice una grande verità: essere genitore è un’arte complessa, non è qualcosa che si può imparare, è un ruolo in cui si viene catapultati con la nascita di un bambino, è un’avventura soggettiva che poco ha a da condividere con le esperienze altrui considerate le infinite variabili.

L’etimologia della parola educare può rappresentare il punto di partenza di questa nostra analisi: “e-ducere” significa infatti “tirare fuori“, in questo caso estrapolare da un figlio le sue competenze e la sua vera identità. “Educare” è, inoltre, un vocabolo da accostare al termine greco “maieutica”, ovvero “l’arte del far nascere”.

L’atto di educare che, abbiamo detto, è una scelta consapevole e lontana dall’essere qualcosa di automatico, rappresenta la volontà di alimentare la competenza di un figlio nella sua capacità di costruire valori, operare scelte, creare coerenza tra coscienza e azioni.

Khalil Gibran, nella poesia “i vostri figli”, rivolgendosi ai genitori diceva: “Voi siete gli archi dai quali i vostri figli, come frecce viventi, sono scoccati. L’Arciere vede il bersaglio sul percorso dell’infinito, e con la Sua forza vi piega affinché le Sue frecce vadano veloci e lontane.”

Il bisogno dei figli è, dunque, quello di crescere, di essere accompagnati all’autonomia, più che stare bene insieme ai genitori.

Va considerato che questi ultimi, oggi, sono figure educative più sensibili ai contenuti pedagogici e molto orientati a dare un significato alle scelte che operano in funzione dei figli sulla base della lettura di libri, consultazione di esperti, partecipazione a convegni e così via… Il genitore moderno in linea generale vuole educare con cura, agire con consapevolezza ed analizzare i bisogni specifici di quel figlio perché ritiene, a giusta ragione, che “educare” sia un’attività che richiede competenza, attenzione, capacità creativa, che necessita di organizzare intenzionalmente una serie di azioni, saper regolare, ascoltare e alla base di tutto sapere comunicare.

Non si può, infatti, pensare di poter educare senza comunicare.

Anche qui risalire alle origini ci viene in aiuto: il termine “comunicazione” deriva dal latino “cum” (che vuol dire “con”) e “munire” (ovvero: “legare, costruire”). Comunicare significa fondamentalmente “mettere in comune” con altri, informazioni, idee, emozioni… Questo scambio tra persone avviene soprattutto attraverso il linguaggio parlato o scritto, ma anche attraverso gesti e immagini. Il linguaggio verbale, di cui solo gli esseri umani possono godere, quindi è uno degli strumenti, sicuramente il più importante, che permettono la comunicazione, ma ad esso si aggiungono gli aspetti non verbali della comunicazione: il tono, il ritmo, il volume della voce, i gesti, la mimica, gli sguardi, la postura, anche l’abbigliamento.

Pertanto possiamo affermare che qualsiasi nostro comportamento è comunicazione e, come si può facilmente constatare, la comunicazione non ha quasi mai una struttura lineare semplice: non è possibile, in linea generale, distinguere un inizio ed una fine, piuttosto ogni comunicato è insieme di causa ed effetto di altri messaggi (comunicazione circolare). Il concetto comunicativo implica la presenza di un’interazione tra agenti diversi oltre a trattarsi di un’attività che prevede anche un certo livello di cooperazione.

Allora, quando vi è comunicazione tra persone, non si assiste mai solo ad uno scambio di contenuti e non vengono solo trasmesse informazioni, ma si definisce anche il tipo di relazione instauratasi tra quelle determinate persone. Si dice pertanto che ogni comunicazione ha un aspetto di contenuto, ciò che le parole dicono, e uno di relazione, ciò che i parlanti lasciano intendere sulla qualità della relazione che intercorre tra loro, e ciò a livello verbale e più spesso non verbale. Nello specifico del rapporto genitori-figli la comunicazione rappresenta un aspetto relazionale di fondamentale importanza. E’ impossibile non comunicare ed è impossibile non entrare in relazione con l’altro. L’ altro avrà sempre una percezione di noi e del nostro modo di porci nei suoi confronti.

Ecco perché dovremmo sempre chiederci: che cosa imparano i bambini? Che cosa comunichiamo loro quando viviamo una relazione spesso fatta di gesti e quindi di comunicazioni non sempre consapevoli? Cosa comunicano le emozioni che viviamo e che sono coinvolte nella relazione con loro? In famiglia comunicare significa porsi gli uni verso gli altri, genitori e figli, nella propria casa, nella quotidianità più intima delle relazioni felici e/o dolorose della vita comune.

La parola, pronunciata ed ascoltata, così come l’azione realizzata e condivisa, può essere compresa solo attraverso un esercizio costante di attenzione all’altro. Dunque nella conversazione familiare il dialogo, l’ascolto attivo e l’attenzione sono mezzi attraverso cui genitori e figli mettono reciprocamente in atto uno scambio relazionale.

Possiamo affermare che se non sappiamo comunicare adeguatamente con i nostri figli, anche la relazione con loro risulterà complessa.

Non è semplice saper comunicare, ma è solo così che possiamo gettare le basi di una relazione genuina, sana e duratura.

Il dr J.B. Watson, che molti conoscono come “il padre del comportamentismo”, delineava un altro caposaldo dell’atto educativo e cioè che l’ambiente esterno è importante e che i genitori hanno il gravoso e meraviglioso compito di educare il bambino alla serenità. Certo è un bellissimo pensiero educare alla serenità ma, in concreto, cosa significa? Proviamo a spiegarlo meglio.

Watson ed altri illustrissimi psicologi con “educare alla serenità” intendevano il rendere il bambino in grado di “amare e lavorare”, ovvero di trarre la massima soddisfazione dalla sfera privata e da quella pubblica: amare e ricevere amore oltre che imparare ad essere utili nella società, ricavandone motivo di orgoglio e senso di appartenenza.

La mia idea è che educare i figli alla serenità vuol dire essere ben consapevoli di cosa noi facciamo, sia in bene che in male, nei confronti nel nostro bambino, questo perché il nostro comportamento unitamente al temperamento di nostro figlio, influenza tantissimo la sua personalità futura. Una carezza in più, il saper rimediare ad un errore, il chiedere scusa, una sgridata o punizione…sono tutte esperienze fondamentali che andranno a costruire la memoria inconscia del bambino e che poi lo guiderà nel futuro.

Educare alla serenità implica la capacità di resistere alla tentazione di voler plasmare il figlio che il genitore desidera, bisognerebbe invece dare a lui la possibilità di esprimersi e di evolversi secondo i suoi ritmi, sviluppando la sua personalità secondo le sue potenzialità. Per i genitori sarà un’impresa ardua non assecondare le proprie aspettative, tuttavia chiunque si trovi nella condizione di poter influenzare un bambino, siano essi genitori o altri educatori (caregivers), dovrebbero sforzarsi di offrirgli una visione positiva ed oggettiva di sé e del suo mondo. Ciò non significa ingannarlo o proteggerlo eccessivamente da esperienze negative, ma dargli gli strumenti per affrontarlo questo nostro mondo, con le sue insidie e le sue meraviglie.

Per esempio facendolo vincere, ma qualche volta permettendogli anche di assaporare il sapore della sconfitta, con mamma e papà accanto pronti a consolarlo, a spronarlo, a riprovarci.

Facendogli comprendere il valore prezioso delle cose ma senza rigidità, permettendogli di capire che talvolta uno strappo alla regola è cosa buona e giusta. Insegnandogli a chiedere e a rispettare l’altro, mostrando in prima persona come si fa: vedere il proprio padre che si alza per fare posto a una persona anziana sul treno, per esempio, è un insegnamento di umiltà e rispetto che rimarrà impresso nella sua mente, molto meglio di tante parole. Insegnargli con l’esempio a gestire un conflitto senza far leva in modo ricattatorio sui sentimenti. Insegnargli che essere arrabbiati non vuol dire perdere l’amore per l’altro…

Ci vuole pazienza, ci vuole fantasia, ci vogliono errori…perché “allevare i figli è un’impresa creativa, un’arte più che una scienza” (Bruno Bettelheim, “Un genitore quasi perfetto”).

 

Articolo pubblicato sul sito www.guidapsicologi.it il 23.03.2021

Scritto dal dott. Massimiliano Loreto

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